Quello che unisce Mario Magnotta e Greta Thunberg



Nel celeberrimo scherzo telefonico ai suoi danni, il mitico Mario Magnotta ad un certo punto sbottava: "Io la lavatrice la pagai nel 1981 [...] 480mila lire e l'ho pagata!". Tradotto l'importo in euro e rivalutato ad oggi, al buon Magnotta la lavatrice costò - centesimo più, centesimo meno - la bellezza di 1.113 euro (calcolo effettuato sul sito ISTAT). Se ora provate a googlare "lavatrice in offerta", nelle anteprime dei risultati la più costosa risulterà essere, oggi 4 novembre 2021 quarant'anni dopo l'acquisto più incauto della storia, una Bosch Serie 6 che potete portare a casa vostra al prezzo di 379,90 euro. Circa un terzo. Non male, direi. E anche a pagarla a prezzo pieno, vale a dire il doppio, dunque circa 760 euro, risparmiereste un buon trenta per cento rispetto a quanto speso da Magnotta.

Occorre partire da qui, a mio sommesso avviso, per provare a capire un po' meglio il vero quadro degli interessi in gioco nei vari consessi dove si sta trattando il futuro ambientale (ma non solo quello) del nostro pianeta. Perché se è vero che i paesi avanzati sono ormai green che più green non si può - in questi giorni ho sentito ripetere sino alla nausea che la super-virtuosa Europa contribuisce solo per l'8% al totale delle emissioni - è altrettanto vero che ormai le loro economie sono basate sui servizi e su poca ed iper-selezionata manifattura di alto e altissimo livello - entrambi comparti a bassissime emissioni - avendo appaltato al resto del mondo la produzione di (quasi) tutto il resto. 

E' infatti noto che a partire dalla fine del "mondo a blocchi" si è assistito ad una progressiva delocalizzazione di attività produttive dall'occidente verso i paesi emergenti, dovuta soprattutto al minor costo della manodopera, ma anche alla minore sensibilità dei governi di quei paesi alle tematiche ambientali e dunque ai connessi minori costi "da inquinamento".

Ma a guadagnarci non sono state solo le imprese. E' vero, delocalizzare ha abbattuto i costi, ma questa riduzione non si è tradotta solo in profitti, ma anche in potere d'acquisto per i consumatori, perché l'aumentata concorrenza dovuta alla caduta delle barriere ha trasmesso queste riduzioni sui prezzi di vendita. Circostanza che ha avuto come naturale conseguenza un reddito reale più elevato per chi ha potuto goderne, che a sua volta ha significato maggiore ricchezza per tutti: imprese e lavoratori/consumatori.   

Oggi, infatti, possiamo acquistare prodotti di largo consumo - scarpe, vestiti, elettrodomestici, accessori per la casa, materiali per l'edilizia, mobili, telefoni cellulari, tablet, pc ed elettronica in generale e chi più ne ha più ne metta - a prezzi "reali" che trent'anni fa nemmeno ai saldi avremmo spuntato. Con l'annesso che non solo ne compriamo di più, ma li rinnoviamo anche più spesso, dando così ulteriore impulso all'offerta di beni prodotti in quei paesi.

Ricordo perfettamente un giubbino di pelle - il mio primo giubbino di pelle - regalatomi per il Natale del 1988, pagato un occhio della testa e utilizzato per quindici anni, nonostante il suo entrare ed uscire ciclico dai canoni della moda del momento. Oggi potrei comprare un giubbino di pelle a stagione e in quattro anni non spenderei la cifra del mio meraviglioso, primo (e unico) Schott. 

Il problema è che tutto questo ci sfugge. E' infatti dato culturale vedere la questione ambientale soprattutto come un problema che riguarda chi produce e non chi consuma. O meglio. Crediamo di essere più o meno a posto con la nostra "coscienza verde" differenziando carta e plastica e preferendo - i pochi che lo fanno - alcuni prodotti cc.dd. "green". Ma è chiaro che non basta. 

Come è altrettanto chiaro che se a noi sfugge - per disattenzione, scarsa informazione o anche comodità - il dato non può essere ignorato e soprattutto strumentalizzato da chi ci guida. Il messaggio che sta passando, infatti, è che i paesi emergenti si arrogherebbero il diritto di continuare ad inquinare perché funzionale al loro attuale modello di sviluppo. Vero a metà, perché la loro produzione inquinante  arricchisce anche noi, come abbiamo visto, incidendo sul livello generale dei prezzi dei nostri consumi, privati o industriali che siano. Ma soprattutto perché il modo per convincerli a cambiare rotta in verità ci sarebbe: stop alle importazioni o applicazione di dazi salatissimi per le produzioni che non rispettano certi parametri. 

A dire il vero, l'odiosissimo Trump ci aveva provato a battere questa strada, anche se per ragioni molto meno nobili. Abbiamo però visto immediatamente quali siano state le ricadute nel breve, vale a dire la flessione delle nostre esportazioni per simmetrica ritorsione. Ma non finisce qui, perché stiamo sperimentando oggi le conseguenze nel medio termine, ovvero lo sbilancio tra domanda e offerta di beni essenziali con connesso aumento dei prezzi per incapacità del sistema produttivo domestico di coprire la domanda con la produzione interna, una volta diminuite le importazioni. E non abbiamo ancora visto, ma assaporeremo presto, le conseguenze nel lungo periodo, che molto probabilmente si concretizzeranno in un aumento generalizzato dei prezzi di molti beni strategici, su base consolidata e non contingente, con connessa crisi "da costi" di interi settori collegati. 

E tutto questo a causa di una politica ormai rientrata dopo l'arrivo di Biden ma che, seppur in vigore per un breve periodo, ha prodotto conseguenze tangibili sul nostro benessere non disinnescabili nell'immediato. In altre parole, stiamo iniziando a sperimentare, e presto lo faremo con maggiore intensità, cosa significhi non poter contare su chi fa il "lavoro sporco" per noi. 

La realtà dunque è che la questione ambientale è molto più complessa di quanto sembri e che la "colpa" non è solo dei cinesi e degli indiani, che comunque non sono privi di responsabilità - questo è bene evidenziarlo. La riduzione delle emissioni è una questione sistemica che coinvolge sicuramente variabili tecnologiche, ma anche ideologiche - vedasi non solo il dibattito sulla riduzione dei consumi e la sua reale "sostenibilità", ma anche quello sull'energia nucleare - culturali, ma soprattutto economiche.  

In tutto ciò, nonostante possa apparire antipatica ai più, Greta Thunberg ha ragione da vendere. O almeno, ha il pregio di chiamare le cose per nome e cognome e, se anche risulta naif e un poco spocchiosetta, centra appieno il cuore del problema. Che poi si sia o meno d'accordo con lei sulla strada da intraprendere ce ne passa. 

Ma occorre mettersi in testa una cosa e farla divenire patrimonio comune: o torniamo a pagare i nostri consumi per quello che costano realmente in termini ambientali, accollandoci come sistema economico l'onere reale delle produzioni green - sia esso monetario o sotto forma di astensione dal consumo - oppure prima o poi anche da noi arriverà qualcuno a chiederci di pagare nuovamente quella lavatrice portata via per una (apparente) manciata di euro. 

Con la tragica differenza che questa volta non sarà uno scherzo telefonico di qualche buontempone.  
  

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